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Siamo davvero altruisti?

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Da dove viene l’altruismo? Perché un uomo dovrebbe donare il proprio denaro in beneficenza? Perché dovrebbe perdere numerose energie e tempo della sua breve vita per aiutare qualcun altro senza riceverne nulla in cambio? Perché gazzelle o suricati attirerebbero su di sé l’attenzione e di conseguenza le zanne del predatore per evitare che questo faccia una strage nel gruppo? Perché le api pungerebbero un eventuale invasore perdendo la vita in cambio della difesa del nido?

In questo breve testo cercheremo di trovare una risposta indagando l’origine del comportamento altruistico e valuteremo se cooperare è una scelta vantaggiosa.

Queste e tante domande sono vecchie quanto la storia dei tempi.

Queste e tante domande sono vecchie quanto la storia dei tempi. C’è chi ha provato a risponderci attraverso la religione, con Dio che creò gli uomini e tutti gli esseri fondamentalmente buoni, c’è chi ha cercato un’equazione matematica e c’è chi si è tolto la vita per aver mancato la risposta. Ci chiediamo sempre se il bene reciproco che vediamo o proviamo sia sincero o vincolato e se il vero segreto per una vita più felice sia quello di dare senza chiedere nulla in cambio. Ma la vera domanda è:

siamo pre-strutturati per essere altruisti o dobbiamo noi trovare l’altruismo? 

Saltiamo subito, a piedi pari, nel 1859 quando Charles Darwin pubblicò “L’origine delle specie” – affermando il concetto della selezione naturale e della sopravvivenza del più adatto- era cosciente che la sua teoria aveva numerose imperfezioni.

Nel suo crudo mondo Machiavellico non riusciva a spiegarsi la nascita e la diffusione di alcuni tratti come quello altruistico se la selezione mirava soltanto alla fitness (successo riproduttivo) dell’individuo. Sembra non avere senso, e così è stato fino all’arrivo delle moderne teorie evolutive.

 

 

L’altruismo secondo Richard Dawkins

In un impreciso momento miliardi di anni fa, amassi di molecole organiche si unirono a creare gli acidi nucleici e a formare i primi replicatori: i geni.

Essi possono essere considerati l’unità fondamentale di tutti i viventi e nel tempo crearono diversi veicoli e strumenti da sfruttare per la propria propagazione: dapprima cellule poi organismi multicellulari differenziatisi in tutti gli organismi viventi conosciuti e non. Gli attrezzi raffinatissimi che sono intorno a noi e di cui noi stessi facciamo parte si sono evoluti per bilioni di anni con l’unico scopo di fare delle copie.

Da sempre i biologi hanno creduto che i geni e quindi il nostro DNA siano usati dall’organismo per svolgere tutte le funzioni vitali quali nascere, crescere, sopravvivere e riprodursi ma non si può forse dire anche il contrario?

Questa é la teoria del gene egoista (The Selfish Gene-1979) di Richard Dawkins.

I geni sono programmatori professionisti che programmano la propria vita e sono giudicati da un tribunale spietato, quello della sopravvivenza, in base al successo dei loro programmi nell’affrontare tutti i pericoli che la vita pone di fronte alle loro macchine per sopravvivere. (cap. 4, p. 67)

Inseriamo in questo contesto il dilemma delle formiche, grattacapo dello stesso Darwin.

Sembrano, infatti, un chiaro esempio di comportamento altruistico ma diamogli una prospettiva nuova grazie alla teoria del biologo inglese e successivamente ne analizzeremo punti cardine ed obiezioni.

Circa il 20% delle formiche muore uscendo dal formicaio in cerca di cibo per sfamare la colonia.

Circa il 20% delle formiche muore uscendo dal formicaio in cerca di cibo per sfamare la colonia, perdendo così tutte le possibilità di compiere le 4 funzioni vitali. Qui nasce nuovamente il nostro caro paradosso, si lo so che siete dei lettori svegli e intelligenti e vi state continuando a chiedere il perché, ma dovete tenere a freno per un attimo la vostra curiosità, c’è da fare una piccola premessa.

Le formiche operaie sono tutte di sesso femminile e sterili, nate tutte dalla stessa madre regina con cui condividono metà del proprio DNA; tra di loro invece ne condividono 3/4.

Appare evidente quindi che se il fine ultimo dell’organismo è la prosecuzione dei geni è palesemente più conveniente per l’operaia favorire la prosecuzione delle sue sorelle operaie piuttosto che della regina e l’unico modo per farlo è proprio quello di alimentarla in modo tale che continui a produrre altre sorelle.

Questa di Dawkins è anche conosciuta come selezione di parentela ed ha riscosso un discreto successo negli ambienti scientifici. Questa teoria però deve tanto all’opera di un altro uomo che fa parte del club di chi ci ha provato: stiamo parlando di William Donald Hamilton, meglio conosciuto come Bill. La sua teoria era tanto ambiziosa quanto semplice ed è meglio nota come inclusive fitness, con una sola equazione voleva spiegare tutti i rapporti altruistici presenti in natura.
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  • r= Relazione di parentela
  • B= Beneficio sul ricevente
  • C= Costo per l’altruista

Sintetizzando, il gene che porta il comportamento altruistico sarebbe potuto essere vincente se la quantità di geni che si può salvare con quell’atto è maggiore del costo per l’individuo.

L’equazione di Hamilton sembrava funzionare ma non riusciva a spiegare comportamenti altruistici tra i singoli che non condividevano praticamente nessun grado di parentela.

 

 

La storia si complica

Nel 2010 il famoso biologo evoluzionista Edward O. Wilson vanta di avere prove biologiche e matematiche che, in realtà, la storia non è del tutto esatta andando contro tutto ciò che aveva fino a quel momento sostenuto.

Passando per due livelli, la cooperazione dapprima favorisce un nido stabile e difendibile, poi una volta raggiunta la soglia dell’eusocialità i membri del gruppo si dividono il lavoro sacrificando interessi personali per quelli collettivi.

Un esempio semplice e sperimentabile si può osservare facendo coesistere due api di alcune specie solitarie all’interno di uno spazio ristretto: esse si divideranno i compiti, una terrà guardia al nido mentre l’altra andrà alla ricerca di cibo; se entrambe le api fossero predisposte una a tenere il nido e l’altra a procacciarsi il cibo esse supererebbero la soglia dell’eusocialità su cui poi la selezione naturale può fare il suo gioco e alla fine del giorno e di milioni di questi le operaie non saranno altro che delle cellule specializzate in diverse funzioni; ad esempio quelle del nostro epitelio intestinale svolgono il ruolo di nutrizione proprio come le api operaie in cerca di nettare. In questo caso le operaie sono spettatori non paganti della selezione naturale guidati semplicemente dai feromoni della regina ma sopratutto notiamo che la “scintilla” può scattare su api che non sono né parenti né lontane cugine.

 

Anche se mentre ci avviciniamo ad osservarle guardando dall’alto i loro complessi formicai ci sembra quasi di sentire il motto tipico dei moschettieri di Dumas, “Tutti per uno, uno per tutti”, forse abbiamo fatto un buco nell’acqua.

 

Proseguiamo inesorabilmente nella nostra ricerca incontrando Wynne-Edwards con la sua teoria della selezione di gruppo in cui sosteneva che i tratti altruistici si potessero essere sviluppati in relazione al beneficio che il gruppo otteneva dal comportamento altruistico di alcuni dei suoi membri; In questo caso, però, il portatore di questo carattere avrebbe avuto vita breve, quindi niente del suo patrimonio genetico poteva essere trasmesso alla prole.

Più andiamo avanti più la nostra cara acqua ci sembra un formaggio svizzero ma la svolta sta per arrivare.

 

 

 

Sempre più vicini

C’era bisogno di qualcosa di nuovo e così fu: entrarono nel campo di battaglia la Teoria dei giochi e le ESS (Strategie evolutivamente stabili). Partiamo dalla fine e per spiegare le ESS facciamo un esempio:

 

C’è un vastissimo campo di grano da coltivare per poi sfamarsi, ci sono 10 contadini che lavorano duramente tutto l’anno per sfamare se stessi e la propria famiglia. Mentre 5 contadini se ne stanno l’intero anno a dormire ed aspettano il giorno del raccolto per rubarlo ai contadini, in poche generazioni tutti i contadini che sono grandi lavoratori sparirebbero e neanche i ladri di grano potrebbero più sfamarsi.

 

Rubare il grano quindi non è una strategia evolutivamente stabile ma cambiando sponda ci sembra di vedere che neanche i contadini che lavorano tutto l’anno possano essere una ESS, basta l’arrivo di alcuni ladri in questo campo di bonaccioni che la situazione si inverte rapidamente.

Cerchiamo la soluzione nel mezzo: un rapporto evolutivamente stabile potrebbe essere quello di avere 100 contadini buoni e 5 contadini fannulloni, in modo tale che i danni siano contenuti e diffusi su un grande numero, quasi da non sentirne il peso. Un esempio vincente sotto i nostri occhi è il rapporto 1:1 tra uomini e donne, se ci fossero 10 uomini ed una donna, gli altri 9 morirebbero senza aver trasmesso i propri e geni e così il contrario.

Ed è qui che arriva la teoria dei giochi, che promette di chiarire una volta per tutte qual è il comportamento giusto per un vantaggio dell’individuo e del gruppo. Essenzialmente le dinamiche di gioco sono semplici, prendiamo un esempio vicino al dilemma del prigioniero ma con qualche modifica che è quello che ci fornisce il pluricitato Richard Dawkins.

  • Ci sono due uomini uniti da nessun grado di amicizia o parentela e senza la possibilità di comunicare. Hanno due carte: una cooperazione e l’altra defezione; ognuno può scegliere una sola carta e la vincita dipende da quello che l’altro giocatore avrà giocato secondo questo schema:

 

Secondo giocatore
Primo giocatore Cooperazione Defezione
Cooperazione Guadagno di 300€ per entrambi Multa di 100€ al cooperatore
Defezione  

Guadagno di 300€ per chi non coopera

Multa di 10€ per entrambi

 

A rigor di logica la scelta più razionale visto che non conosciamo le mosse dell’avversario è giocare defezione, sempre. Saranno entrambi arrivati a questa conclusione pur sapendo che giocando sempre cooperazione avrebbero ottenuto entrambi una ricompensa più alta ma non lo fanno “perchè temo che tu tema che io…”.

“perchè temo che tu tema che io…”

Vogliamo per noi la scelta migliore a costo zero senza valutare mai le altre possibilità come quelle di una sana e più giusta cooperazione. Quindi cooperando si rischia di perdere più di quanto si guadagnerebbe da un atteggiamento opposto? La storia non è del tutto esatta, infatti tutto quello già detto vale solo alla condizione che ci sia un numero fisso di partite. Ma cosa succede se questo gioco è “iterato” nel tempo?

Tutto cambia. Sebbene le strategie siano innumerevoli, quella che numericamente e sperimentalmente ha avuto più sucesso è Titfortat, cioè una sorta di “occhio per occhio, dente per dente” partendo però da collaboratori; solo nel momento in cui il nostro avversario ci tradisce noi possiamo rispondere alla stessa maniera.

   Finita questa partita non esiste vendetta o rancore

Finita questa partita non esiste vendetta o rancore, si dimentica tutto quello che è successo in precedenza e si va avanti. Scegliere di collaborare nel tempo paga sempre e funziona ancor di più quando la collaborazione inizia a dilagare. Una volta raggiunta la “massa critica” e la maggior parte dei giocatori perpetua questa strategia, è poi difficile tornare indietro, ottenendo massimo vantaggio da ogni ipotetica interazione con la formazione di una ESS.

Tutto questo alcune specie di pipistrelli lo hanno già capito da tempo, può succedere che alla fine della notte un individuo del gruppo rigurgiti prezioso e prelibato sangue per sfamare il povero malcapitato rimasto fino a quel momento a bocca asciutta e nel momento in cui la situazione si invertisse, più facilmente si restituirebbe il favore al vecchio amico.

In natura, seppur le carte in gioco cambiano, costantemente si gioca al dilemma del prigioniero prolungato nel tempo: piante ed animali, batteri e funghi, protozoi ed amebe si contendono porzioni di territorio simulando quasi una partita a dadi.

 

Un pesce pagliaccio agli albori del suo sviluppo avrebbe potuto dire: “Ehi tu, mia cara anemone, credi sia meglio per entrambi se vivessimo insieme? Guardiamo un po’ i nostri geni e che numeri che son venuti fuori. Ma anche se non siamo ancora compatibili, non disperare! Io potrò crescere e migliorare proprio come vuoi tu e prima o poi faremo 12.” (C’è da notare che in questo caso parliamo di altruismo reciproco)

Alcune specie hanno quindi evoluto un comportamento più o meno sociale in funzione della propria sopravvivenza e per quanto ci sembri paradossale attribuire valori morali ad organismi che riteniamo inferiori, in alcuni casi essi possono comportarsi da altruisti.

 

 

 

L’altruismo entra nelle tribù

Per par condicio nominiamo nuovamente anche Wilson dando uno sguardo al passato ed uno al futuro. Dalle prime tribù primitive alle società del nostro secolo, i gruppi hanno sempre basato il proprio predominio sulla compattezza, sull’aiuto reciproco e la condivisione; anche qui torna il problema selezione naturale, ma cerchiamo di spiegarci meglio.

Sicuramente un individuo egoista prevale su un individuo altruista, ma che succede se guardiamo ai gruppi? L’avranno vinta quelli in cui si coopera: qui nasce la coesione sociale ma allo stesso tempo la formazione di più gruppi solidi con tratti altruistici nella propria cerchia ma ostili nei confronti degli altri.

Noi potremmo essere l’unica specie abbastanza intelligente da centrare l’equilibrio tra la selezione dell’individuo e del gruppo, ma siamo molto distanti dal capirlo. Il conflitto tra differenti livelli può produrre grandi drammi nella nostra specie: le alleanze, gli affari amorosi e le guerre.

Pur vivendo in un mondo completamente diverso da quello degli uomini pleistocenici abbiamo un’irrefrenabile voglia di sentirci parte di uno o più gruppi chiudendoci in essi e mettendoci dei paraocchi sul resto e, una volta inseriti, gli altri ci sembrano inferiori.

Tutto ciò risultò necessario per i nostri antenati cacciatori-raccoglitori per sopravvivere. Non avevano scelta, quando un grosso mammut andava abbattuto di certo il singolo non poteva uscire vittorioso dall’impresa. Ed ora, nei nostri giorni, questa cooperazione è stata portata all’estremo; i prodotti sulla nostra tavola ci arrivano attraverso centinaia di individui e rimodellamenti, grazie ad un’abilità che ci ha permesso di differenziarci dal resto del mondo animale, siamo coscienti della nostra posizione e del nostro ruolo nella catena.

 

 

 

Cosa ne pensano i nostri cugini?

Alcuni neuroscenziati, analizzando le parti del cervello coinvolte in un particolare contesto di gruppo in macaco rheus, hanno individuato due principali aree: una che dice “non curarti del gruppo” e l’altra localizzata nella corteccia cingolata anteriore (ACC) sembra funzionare nel modo opposto ossia dicendo “interessatene fortemente”, e quest’area è la stessa in cui si ritiene si trovi il complesso dell’empatia. Come se ce ne fosse bisogno troviamo l’ennesima interazione tra queste “due” fantastiche peculiarità.

Visto che stiamo parlando di scimmie come possiamo non citare i più che famosi bonobo? Qui tutto torna, 8 milioni di anni fa bonobo e scimpanzé erano la stessa specie ma per cause naturali essi si divisero ai due lati del fiume Congo. A Nord troviamo una specie molto aggressiva e territoriale che sono appunto gli scimpanzé, capaci di guerre fra gruppi e scontri per accaparrarsi la femmina desiderata o una scorta di cibo, essi hanno vissuto per millenni con un altro ominide allo stesso modo bellicoso che è il gorilla e con lui hanno dovuto dividere le fonti alimentari.

Dall’altra parte, invece, troviamo il bonobo, una specie che aveva il primato su tutte le fonti trofiche che erano in abbondanza. Si svilupparono in quel contesto diversi gruppi fortemente altruisti con reti sociali fortissime e propensi alla pace; essi condividono il cibo raccolto con i parenti e, come si vede nel video che segue, preferiscono addirittura condividerlo con gli estranei come segno di benvenuto e per evitare future tensioni.

 

 

 

Alleniamoci all’altruismo

L’uomo può allenarsi ad essere altruista.

L’uomo può allenarsi ad essere altruista e le prove sul banco le mette un monaco buddista di origini francesi, Matthieu Ricard, con l’aiuto di vari neuroscienziati che lo hanno sottoposto a 120 ore di risonanza magnetica. Le evidenze sono schiaccianti.

Il cervello cambia strutturalmente nel momento in cui medita, un’attività mirata all’esplorazione della propria mente; cercando di immedesimarsi in un altro individuo, ti permette di essere più empatico e quindi più propenso all’altruismo.

Puoi continuare ad esserlo per il resto della tua vita senza la necessità di diventare uno dei santoni dell’Himalaya. Risultati effettivi sono stati riscontrati su bambini dopo sole 8 settimane e con un attività di allenamento giornaliera di soli venti minuti.

 

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Per quanto potesse sembrare che la nostra natura ci abbia remato contro, qui ci viene in aiuto l’epigenetica, quella branca della genetica che studia come delle modificazioni assunte durante la vita di un individuo possano essere tramandate alla prole senza in nessun modo alterare il nostro patrimonio genetico.

Si, avete capito bene, ci sono dei marker che per semplicità possiamo definire “cappelli” che si posizionano su di un gene e possono silenziarlo o in parte modificarlo. Il tuo atteggiamento oggi può influenzare indelebilmente il futuro dei tuoi figli, e dei figli dei tuoi figli.

Il tuo atteggiamento oggi può influenzare indelebilmente il futuro dei tuoi figli, e dei figli dei tuoi figli.

Un’arma a doppio taglio incredibilmente potente che ci fa ancora una volta sentire in dovere per le generazioni future. È come se, in parte, tornasse l’universalità morale di kantiana memoria che vale per tutti, nessuno escluso. Scegliere oggi di essere empatico ed altruista significa fare la miglior scelta per se stessi e per tutti gli esseri umani.

 

 

Il tassello mancante

Gli appartenenti alla specie Homo sapiens però hanno avuto una fortuna davvero rara nel mondo animale, quella della cultura. La cultura può aver agito nello stesso modo discriminante nei gruppi: gli individui che avevano una cultura fondamentalmente altruistica possono aver avuto più successo riproduttivo, ma se parliamo in questi termini dobbiamo inserire tutto in contesto più umano e per farlo torniamo di nuovo indietro.

Darwin per comprendere la cooperazione si era prima chiesto perchè alcuni uomini sono morali ed altri non lo sono. Partiamo dal presupposto che tutti siamo degli esperti di etica quando dobbiamo giudicare il comportamento altrui e siamo bravi allo stesso tempo a distribuire terribili pene quando un’azione ci sembra sbagliata.

Questo crea un sistema in cui tutti si sentono giudicati e ci fa riflettere sul motivo che spinge un individuo a non commettere un atto “negativo”. Non lo fa perché non vuole davvero farlo o perché ha paura di un giudizio morale di un gruppo di persone?

Perché non vuole davvero di farlo o perché ha paura di un giudizio morale di un gruppo di persone?

E non è vero forse che tendiamo ad aiutare per primo un individuo che conosciamo come altruista e quindi in grado di restituirci il favore con più sicurezza rispetto ad uno sconosciuto? Ma allo stesso tempo non siamo certi che l’individuo altruista sia veramente tale e che in realtà non abbia “finto” altruismo per ottenerne in futuro dei vantaggi.

Ci riteniamo gli strateghi più abili ma ci perdiamo in un biccher d’acqua; abbiamo il linguaggio, la coscienza del futuro e tante altre emozioni; siamo capaci di aiutare sconosciuti che non rivedremmo mai più nella nostra vita usando l’empatia per immedesimarci nella loro condizione; abbiamo, infine, la scienza che a lungo termine dice “i buoni arrivano primi” indipendentemente dalla razza o dai gruppi sociali di appartenenza ma continuiamo ad ascoltare i nostri istinti animali.

Per quanto lavoro sia stato fatto ed ancora si farà sembra che l’uomo non sia nè angelo nè diavolo ma sia per natura entrambi. In alcuni casi sembra che la mia sia un’interpretazione fin troppo ottimista ma ciò che è incontestabile è che la nostra occasione su questo pianeta è unica e l’uomo, a differenza di un gene, è dotato di una “previsione conscia”. Il nostro patrimonio genetico è costituito sul vantaggio immediato mentre noi siamo capaci di capire quale è la miglior soluzione a lungo termine e siamo responsabili di utilizzare il nostro intelletto e la nostra cultura.

Nel frattempo faremo altri danni a noi stessi e al resto della vita, ma grazie a un etica di semplice rispetto, all’applicazione inflessibile della ragione e all’accettazione della nostra vera natura, finalmente i nostri sogni arriveranno in porto.//

Siamo costruiti come macchine dei geni create allo scopo di tramandare i nostri geni. Ma questo nostro aspetto verrà dimenticato in tre generazioni.[..]Ma se contribuiamo alla cultura del mondo, se abbiamo una buona idea, se componiamo una canzone, se inventiamo la candela, se scriviamo una poesia, queste cose possono vivere intatte per lungo tempo dopo che i nostri geni si siano dissolti nel pool comune.

 

 

 

 

Siamo davvero altruisti? è stato pubblicato per la prima volta su Lega Nerd.
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